Vive e opera a Piacenza
Nell’uomo convivono in reciproca armonia due nature: quella dell’artigiano e dell’artista, polarità difficilmente ponibili sullo stesso piano, tanto che solo alcuni degli artisti del passato sono riusciti a cogliere il punto di equilibrio tra esse. Di solito la prima tende a prevaricare arrogando a sé il diritto di relazione operativa. L’arte si evince comunque dall’artigianato perché a metterla in opera è sempre la mano dell’autore, ma non accade frequentemente, come nel caso di Dino, che entrambi coesistono in un mutuo rapporto estetico, suscettibile persino di speculazioni filosofiche avanzate.
Appreso nel corso di un lungo apprendistato a Ravenna, cuore dell’arte musiva internazionale, il mosaico vive, grazie al suo artefice di una vita nuova, sganciata funzionalmente dal modello classico: non fa tappezzeria, ma si muove, interagisce con l’ambiente, entrando nello spirito di chi vi abita. E’ vera passione quella dell’artista piacentino, maturata da una giovanile inclinazione al disegno e alla pittura, successivamente perfezionata a contatto con i più valenti maestri del mosaico antico e moderno. Di lui si sono interessati critici d’arte di chiara fama e gallerie internazionali presso cui a presenziato con mirabili esposizioni, elencate nell’elegante curriculum citato nel web. L’invito a entrare nel Metaformismo è stato motivato dai principi teorici di questa nuova chiave di lettura, che non è solo una valutazione di una semantica trasmutazione del figurativo all’astratto, ma è anche un canale per indagare le molteplici espressività deducibili dall’uso di tecniche e materiali che, allontanandosi dai tradizionali oli su tela, vanno verso sperimentazioni più affini alla sensibilità estetica dell’uomo contemporaneo.
Tra i numerosi e qualificati riferimenti biografici si cita il Catalogo dell’Arte Moderna dell’Editoriale Giorgio Mondadori.
Giulia Sillato - Storico e critico d’arte
LA VITA MOSAICANDO
Il percorso di Dino Maccini sorprende per almeno tre motivi: la scelta della tecnica privilegiata, il mosaico, apparentemente inadatta a veicolare istanze contemporanee per il suo legame inscindibile, in Italia, con la tradizione ravennate; la difficoltà a collocarsi in un panorama artistico che, per quanto molto variegato, confina il mosaico quale tecnica eminentemente artigianale. Il primo periodo è costellato di opere sintomatiche di una notevole capacità di resa figurativa e psicologica, ma anche di un sapiente uso della metafora e della luce quali mezzi per vivificare l’immagine. Successivamente Dino Maccini abbandona il piano in favore di una superficie mossa, incurvata, quasi increspata dal vento, più idonea a sollecitare nell’osservatore vibrazioni emozionali, quasi a suggerire il flusso perenne del panta rei, per non dimenticare mai che ogni minimo evento è assoggettato all’impermanenza, dunque per rappresentarlo non nell’attimo, ma nel fluire dell’attimo, disattivando la sensazione della staticità, della fissità e della sicurezza, a favore del movimento, del cambiamento. Il distacco dal figurativo è segnato dalle opere in cui Dino si ritrae attraverso il logo della sua autorappresentazione grafica una M (per Maccini ovviamente) spezzata in tre che ricompare quasi costantemente come sigla-firma. Nella molteplice e polidirezionata ricerca di senso, Maccini affronta alcuni soggetti che attingono alla metafisica mediante un linguaggio paradossale ed è in questo ambito che crea alcune delle sue opere più suggestive. Ma è nel lavorare, per così dire, in filigrana che Dino Maccini ottiene risultati espressivi davvero unici ed eccellenti, crea così opere che stupiscono e rapiscono per la particolarità dei ritratti e per l’ineffabile luce che li attraversa e li vivifica, o ancora per lo stingersi dei segni, delle forme, quale metafora dello stingersi della memoria. Maccini indaga anche suggestive compenetrazioni di fogli nudi o scritti e la sua vitalità del bambino interiore regala alcune opere al tema del gioco. E’ attento ed aperto al confronto e allo scambio con artisti ed architetti, realizzando progetti su richiesta, le sue opere trovano spazio in numerose collezioni private, ambienti pubblici e luoghi di culto.
(Sergio Signorini)
IL SILENZIO NELL’ANIMA
Quando la ragione si tacita, l’anima gioisce in piena armonia
Ho sempre amato l’arte. Sino da quando ero bambino, l’unica passione che avevo era per i colori ed il disegno. Crescendo non ho potuto purtroppo realizzare il mio desiderio di studiare arte; da giovanissimo ho iniziato a lavorare nella azienda di famiglia, sono diventato padre a 18 anni ed il tempo è volato via..
L’impegno lavorativo era molto gravoso ma ho sempre cercato e trovato con grande fatica momenti per me, per dipingere, per evadere da una vita che non mi apparteneva nell’anima. Continuamente e testardamente. Era un bisogno interiore, grandissimo, mai vissuto come un hobby, ma come un “riposo” dell’anima.
Durante un viaggio ad Istanbul rimasi estremamente colpito dai mosaici di Santa Sofia e ritornato in Italia andai per la prima volta a visitare gli antichi mosaici di Ravenna ed i vari laboratori e quest’arte mi rapì..
Presi una decisione che cambiò la mia vita: mi presi una pausa dal lavoro nell’azienda di famiglia e frequentai un laboratorio a Ravenna. Quando tornai avevo già scelto che da allora in avanti i miei progetti di vita erano cambiati, contro ogni logica, contro ogni razionalità. L’azienda di famiglia era fonte di guadagno sicuro, ma il mio cuore era già altrove, inseguiva l’antico sogno, mai realizzato e mai accantonato.
Era un momento molto difficile per me, perché stavo ponendo fine anche al mio matrimonio ed a ciò si aggiunse la decisione di lasciare il lavoro in azienda.
Chiusi con tutto e mi rinchiusi, letteralmente, per due anni in quelle due stanze “rifugio” che divennero il mio laboratorio. A distanza di quindici anni riconosco che fu un periodo di “catarsi”, Molto doloroso. Fu un periodo di profonda ricerca interiore, che trasponevo nella ricerca della mia tecnica personale. “Attaccare i sassolini” che per tutti era essere fuori di ragione, era diventato per me invece un grande bisogno, o la sola via di comunicazione con l’esterno.
Ora sono qua. Riguardando le mie opere nel corso degli anni vedo il travaglio.. ed il cammino. Dalle prime opere ad oggi leggo la mia storia, mi ci riconosco. Il travaglio del cambiamento e la fatica del crescere.
Mi chiedono spesso che cos’è il mosaico per me, semplicemente è il mezzo attraverso il quale creo la mia arte, lo strumento con cui mi esprimo, una passione che mi ha dato il coraggio di cambiare.
Ed oggi credo perciò che non sempre la voce della ragione debba avere la meglio sulla voce dell’anima.
Dopo quindici anni, penso davvero che la cosa migliore che ho fatto per me stesso sia stata proprio smettere di ascoltare la ragione ed aver seguito la strada che la mia anima instancabilmente non ha mai smesso di suggerire.. Tessera dopo tessera alla fine è arrivata un poco di pace. Sono io.
ottobre 2018
MATERIA E LUCE
Il percorso di Dino Maccini sorprende per almeno tre motivi: la scelta della tecnica privilegiata, il mosaico, apparentemente inadatta a veicolare istanze contemporanee per il suo legame inscindibile, in Italia, con la tradizione ravennate; la difficoltà a collocarsi in un panorama artistico che, per quanto molto variegato, confina il mosaico quale tecnica eminentemente artigianale; il coraggio recente di lasciare gli ormeggi di sicurezza della precedente attività lavorativa, per rischiare la totalità della dedizione alla ricerca artistica.
Gli esordi delle sue scelte si radicano nell’esperienza di apprendimento da Marco Santi, Maestro della Scuola Internazionale del Mosaico di Ravenna, benché, fin da bambino, Dino abbia sempre coltivato le proprie doti per il disegno e la pittura. E che queste doti non siano irrilevanti, lo testimonia senza ombra di dubbio l’avvio figurativo della sua personale ricerca in campo musivo. Appartengono infatti a questo periodo alcune opere sintomatiche sia della capacità di resa figurativa e psicologica, sia di un uso della metafora e della luce, quali mezzi per vivificare, animare la figura, le quali non possono che lasciare davvero ammirati per efficacia comunicativa.
In Nudo (2006), per esempio, Dino Maccini esclude nell’ombra fuori campo gambe, braccia e testa della modella, ma vitalizza, al tempo stesso, un corpo tonico e flessuoso. Sembra insomma privilegiare una lettura del corpo femminile in chiave prettamente maschile, dalla quale sono esclusi il tipico “radicamento” alla vita delle donne (gambe e braccia) e quella “testa” sempre pronta a lasciarsi sconfiggere nella razionalità dal luminoso intuito femminile, che rende però sospettoso, quando non terrorizza tutt’affatto, il maschile. Luminoso intuito che rientra in gioco, metaforicamente, proprio nella luce calda, avvolgente e duplicemente direzionata da due fonti, quasi a simbolizzare l’ambiguità flessibile del femminile. La sensualità del corpo ritratto da Dino è quasi ieratica, capace di “mostrare” il sacro femmineo ed è proprio in questa conquistata visione che ci si scopre desiderosi di totalità, desiderando riconquistare le parti “perdute” per conoscere la pienezza dell’alterità femminile.
Nel Ritratto di ragazzo (2007) invece prevale la sfida a se stesso nel cogliere l’anima incorrotta dell’adolescenza, resa luminosa dalla luce en plein air che la figura. La difficoltà tecnica del mosaico consiste nel rendere possibili quelle vibrazioni luministiche che sfumano il ritratto, lasciando apparire l’essenza della figura, andando oltre, dunque, le caratterizzazioni espressive che connotano la maschera, “la persona”, come definita in psicoanalisi. E in questo Dino Maccini è davvero maestro.
Basti osservare il capolavoro del periodo, Oltre la porta (2003), nel quale una ragazza si espone, per l’appunto, “oltre la porta” simulata nel semplice e minimale gesto di lasciare “a vista” la tavola-supporto del ritratto. Ogni prezioso dettaglio, cui Dino ha riservato intensa cura, scompare a fronte dell’attrazione coinvolgente dell’espressione del viso, che risucchia ogni attenzione, attivando il desiderio di cogliere tutta la ricchezza delle emozioni che l’affacciarsi alla porta muove nel profondo della ragazza. Ci sono sorpresa, tristezza, sfida, distanza e passione a un tempo, attaccamento e desiderio di distacco e libertà, trascuratezza e orgoglio, ferita e rimpianto, desiderio di recuperare il passato e paura di un nuovo tradimento, pallore per sofferenza vissuta e rossore per l’accesso passionale imprevisto, rifiuto ed accoglienza in limine, insomma il vero ritratto di Dino Maccini non attiene semplicemente alla ragazza, al suo corpo e al suo volto, ma a quell’istante infinitesimo e infinito a un tempo, che anima la sua espressione di mille e mille estremi contrari vissuti insieme, nel medesimo, eterno, sconvolgente istante.
E, se un artista si giudica, nel dire comune, dalla capacità tecnica e dalla resa del soggetto, quest’unica opera è sufficiente a garantire inconfutabilmente che Dino Maccini è artista a pieno titolo. Basti pensare a come una micrometrica differenza di misura nelle tessere possa tutt’affatto far perdere ogni qualità e intensità dell’espressione del volto.
In Crocifisso (2005), dello stesso periodo, colpisce il senso di devastata e rassegnata sofferenza umana del Cristo: la piega amara e delusa della bocca, lo sguardo perso verso il basso, si voglia a salutare l’assunto aspetto terreno nel momento del trapasso, si voglia a congedarsi dalle pie persone che ne accompagnano il passaggio, evidenziano tutta l’umanità della figura sacra, pur accogliendo anche la tradizione iconografica tradizionale, per esempio, nel gioco sottile di rappresentare il “decadimento” del cuore nel passaggio dal fisico ed incarnato al sottile e divino. Infatti fra le pieghe, per così dire, dei riflessi cromatici, che insieme modellano e vivificano la forma del busto del Cristo, è data percepire la forma simbolica di un cuore in fiamme che sembra discendere verso l’hara, centro energetico dell’ultimo passaggio, mentre le lingue di fiamma, salendo dietro e oltre il capo, alimentano la luce dell’aureola. Altrimenti dicendo: il cuore nel plesso solare è colto nel momento in cui Cristo sente per l’ultima volta il proprio io umano, nell’hara infatti avverrà lo scambio, il passaggio, sarà rilasciata l’anima vivificatrice e abbandonato il corpo per la trasformazione dell’umano in divino, già annunciata dalla luce in capo, non casualmente apparente proprio laddove risiedono i centri energetici più vicini alla trascendenza e alla spiritualità.
In tutte queste opere ricorre la tradizionale adesione al piano di rappresentazione, che, nella fattispecie, è specificatamente piano: si consenta il gioco di parole, dal momento che spesso, nell’arte musiva classica, il piano di rappresentazione era curvo: absidi, cupole, volte, semplici trombe di volta.
Uno scatto, in questo primo periodo, o, ancor meglio, uno scarto, Dino Maccini persegue, inseguendo il desiderio di abbandonare il piano sul quale distendere le tessere, in favore di una superficie mossa, quasi increspata dal vento, più capace di sollecitare vibrazioni emozionali nell’osservatore, quasi a suggerire il flusso perenne del panta rei, per non dimenticare mai, insomma, che ogni per quanto minimo evento è assoggettato all’impermanenza, dunque per rappresentarlo non nell’attimo, ma nel fluire dell’attimo, disattivando la sensazione della staticità, della fissità e della sicurezza, a favore del movimento, del cambiamento, e più: del rischio del cambiamento.
Prova eccellente di questo scarto è Ti porto via (2007). Un volto, un bellissimo volto di donna, emerge dalle pieghe un po’ contratte dell’ombra per distendersi fiducioso verso l’alto, verso la luce, verso il divino. Caratteristica stupefacente delle pieghe, delle onde vibrazionali del piano di rappresentazione, è il loro moto centripeto, anziché centrifugo: insomma un moto contro natura, come si può solo addire ad ogni moto divino. La ricerca della metafora soggiacente alla rappresentazione non è certo difficile e può essere interpretata su due piani dell’evoluzione umana: uno più arretrato, quello in cui la “persona” esce dall’ombra della propria inconsapevolezza per andare fiduciosamente incontro alla luce della propria divinità interiore, attivata dal sempre più costante essere se stessa; l’altro più avanzato, nel quale la donna, nella fattispecie, transita oltre la propria umanità incrostata di materialità orizzontale, per accedere alla spiritualità sul piano verticale. Questo passaggio, date le incrostazioni materiali che pesano culturalmente ed educativamente sui soggetti di cultura occidentale, non può che avvenire in obliquo, sintesi compositiva di orizzontalità e verticalità, e Dino Maccini, consapevolmente o inconsapevolmente, ne coglie il movimento verso l’alto, accentuato dall’intenso protendersi del volto della ragazza, “disegnando”, rendendo percepibile il flusso di attrazione energetica sia nello stirarsi orientato dei capelli, sia nelle pieghe del piano con diversa valenza: quelle dell’ombra che sembrano sospingere verso l’alto la ragazza, quella della luce che sembra attrarla, sedurla, risucchiarla.
Il distacco dal periodo è simbolicamente rappresentata da L’angolo ribelle (2004), sorta di autoritratto vòlto a segnare la soglia che introduce al progressivo abbandono della figura per avventurarsi in rappresentazioni più astratte, anche se spesso scientificamente irreprensibili. Dino si ritrae attraverso il logo che finirà per assumere quale costante della propria autorappresentazione grafica: una M (per Maccini ovviamente) spezzata in tre - numero perfetto del quale indagare le potenzialità ancora ignote - linee senza più legame né connessione, tre linee d’ombra, come ben s’addice alla rappresentazione del portato familiare di ciascuno, che ciascuno paga portando una parte del peso della storia familiare, ma ormai tre linee danzanti, gioiose, in attesa di vivificarsi ulteriormente attingendo ai riflessi rossi e aranciati del fondo e della cornice; tre linee che violano la cornice, lasciando intendere l’ormai insopportabile confine di prigione del recinto, stravolto concretamente dalla ribellione dell’angolo, che un chiodo “antico” non riesce più a tenere bloccato nelle convenzioni, scardinato esso stesso dalla forza del rigetto di ogni dictat educativo che si fa strada inesorabilmente. La M, che ricomparirà quasi costantemente nelle opere successive, come sigla-firma di colore nero, grigio, blu, azzurro, verde, giallo-verde, rosso, in sempre più chiari viraggi cromatici, in alcuni casi diviene forma narrante, come in E’ già domani (2009), nel quale un pianeta, la cui sfericità è suggerita dallo svolgersi duplicemente concentrico delle tessere, è secato in due emisferi, marcati da una sezione slittata fra due tratti di M ancora ombrosi, ma rischiarati dalla luce incalzante, e dal terzo, rosso, vibrante di nuova vitalità, più flessibile e libero in campo ormai dorato dalla luce; o come in Senza titolo (2010), costituito da due pannelli di ardesia al centro dei quali campeggiano in Oro blu, per traslare il titolo di altra opera del 2010: due segni simbolo della precedente duplicità o spaccatura interna dell’artista, che trova infine, nel tertium datur del proprio logo, l’incontro ormai luminoso dorato della propria ricomposizione e rappacificazione familiare, che, non casualmente, compare proprio quando Dino Maccini, chiude con la storia familiare, rinunciando all’eredità trasmessagli, per seguire la propria strada indipendente, nella quale, col liberarsi delle energie creative, si libera anche la sua essenza personale, umana e artistica.
Nella molteplice e polidirezionata ricerca di senso, attraverso il proprio percorso artistico, Maccini affronta poi alcuni soggetti che attingono alla metafisica mediante un linguaggio paradossale ed è in questo ambito che crea alcune delle sue opere più suggestive.
Impatto (2006) rappresenta l’istante del cambiamento, dell’impatto, per l’appunto, di un meteorite - una semplice irregolare sfera in pasta di vetro, simbolo dell’improvviso palesarsi della vita nella sua violenta emozionalità - con una superficie luminosa, ma uniforme e piatta, una sorta di eden interiore indifferenziato, infine turbato, anzi propriamente sconvolto, ma anche animato dagli eventi perturbanti sopraggiunti. Infatti è proprio nel punto d’impatto, laddove il meteorite scava un cratere, simbolo della ferita che accompagna ogni possibile mutazione, che affiorano raggi luminosi e colorati che rappresentano la differenziazione interna, la presenza di molti possibili mondi, connotati per qualità dalle specificità associabili ai colori, rosso, aranciato, blu, fino al dorato della luce più pura, che si vede affiorare con speranza dal fondo, quale annuncio di riscoperte qualità divine nascoste nell’abisso dell’inconscio, sotto la precedente superficie apparente, uniforme e piatta, normalizzata.
L’assenza si pone quasi come contraltare espressivo di Impatto. Se in quest’ultima è l’intervento di un accidente esterno a muovere il cambiamento e a svelare con immediatezza il nucleo luminoso, in L’assenza (2009) a muovere alla ricerca del proprio “fondo” è un bisogno interno di autoconoscenza, il quale prende le mosse dal classico sasso gettato nell’acqua stagnante. Il risultato è immediatamente evidente: l’acqua si increspa in onde concentriche che sconfinano nell’azzurro velato del fondo tavola di supporto al mosaico, ma lo straniamento, ciò che configura il messaggio che turba la percezione e pone in confronto immediato con se stessi, con la valutazione della propria posizione nel percorso di questa vita, è quel buco nero al centro eccentrico della composizione, come se il sasso gettato abbia avuto il compito di stabilire un contatto con la profondità del sé ancora sconosciuta. Quest’opera potrebbe intitolarsi anche Chi sei? Perché è nel coraggio di lasciarsi risucchiare nella poco promettente oscurità del “buco nero” che può solo essere inseguita e perseguita la nostra luce. L’elemento perturbante dunque, in quest’opera di Dino Maccini, potrebbe essere individuato nell’inizio di quel percorso di sofferente ricerca del sé che, per ognuno, coincide con la discesa negli inferi della depressione, nel contatto con i propri demoni, quei “mostri” che, non dimenticando il significato proprio e primo di monstrum in lingua latina, sono anche artefici, se integrati, ed attivatori delle nostre migliori risorse e dei nostri talenti.
L’acqua, quale elemento fedelmente rappresentativo della fluidità dei tempi correnti, della “liquidità” della società occidentale e delle relazioni che in essa si intrattengono, come definita, un po’ pessimisticamente, da Zygmunt Bauman, è ancora al centro di un’altra opera di Dino Maccini: L’origine (2009). L’artista, in questo caso, torna ad indagare il femminile, ma non lo fa più attraverso il corpo intero o sminuito di alcune parti, ne indaga il mistero tout court, quel mistero che non solo sta all’origine della donna, o meglio del femminile come principio biologico e psicologico, ma all’origine della vita stessa, del mondo, visto che alla donna è stato riservato il compito umanamente più gravoso, ma anche il più divino: generare la vita. Viene in mente un intrigante saggio di Chiara Mangiarotti intorno alle Figure di donna nel cinema di Jane Campion, dal quale è facile indurre una definizione per sua stessa natura riduttiva, o apparentemente tale, ma molto efficace su molti piani: la donna è un essere costruito intorno a un vuoto. Affermazione invece pregnantemente significante sia in termini biologici: utero = vuoto; sia in termini psicologici: intuizione = vuoto, per la tipica prerogativa femminile di non lasciarsi deviare dai flussi mentali dei pensieri logici, ma di arrivare con immediatezza al “nocciolo” di ogni questione per pura, semplice ed efficace intuizione. Al punto che Osho invita, paradossalmente, gli uomini a non impegnarsi in lunghi ed estenuanti confronti con un donna, ma a darle ragione in partenza, perché mentre lui, l’uomo, continua ad elucubrare intorno al tema, aggirando con pindarici voli razionali il nucleo della questione, la donna ha già pronte interpretazione e soluzione, con totale immediatezza. Questo vuoto, questo ingresso immediato e diretto nella verità, ha un accesso concreto, fisico, carnale attraverso quella che, con minima differenza di titolo, Gustave Courbet chiamò L’origine du monde (1866). Dino Maccini si misura dunque con lo stesso tema, ancora partendo dall’acqua. Il mosaico aderisce a un fondo meticolosamente plasticizzato per suggerire insieme movimento e ostacolo. L’acqua è l’elemento fluido che scorre naturalmente fino a che non incontra un ostacolo, che, in questo caso, è proprio paradossalmente quel vuoto, nero e profondo, attorno al quale l’acqua si increspa infittendo le onde, che si dispongono parallele, fino quasi a contrapporsi e lasciando dell’ostacolo una traccia trascinata, una vera e propria dìfenditura, che, se nel femminile può solo sollecitare una sorta di pacato e piacevole ritorno a sé, nella più profonda sintonia del risentirsi “a casa” nel proprio vuoto costituzionale, nell’uomo evoca invece sia la paura, o il terrore persino, della fucina della vita, immaginata ben più potente di quanto mai l’uomo stesso si sia sforzato di apparire nella sua fittizia ed apparente forza, primieramente fisica, sia l’infinito piacere che si incontra nell’abbandonarsi totalmente all’umido e caldo profumo del vuoto femminile, laddove si rinnova, nella fusione dei principi maschile e femminile, dentro e fuori dell’uomo e della donna stessa, il tanto agognato ritorno all’Eden, immaginato, ma solo immaginato, privo di conflitti e di tormenti. In quest’opera dunque Maccini rivela, ben al di là di ogni sua possibile ambizione, la matrice del piacere di vivere, che si compendia nel piacevole contatto con l’acqua che lambisce ogni parte del corpo e in quel mulinello attraente e spaventoso, in una parola numinoso, al quale si può sopravvivere, dal quale ci si può lasciare ri-generare, dopo la petite mort, solo se ci si lascia prima risucchiare senza opporre resistenza.
Ma è nel lavorare, per così dire, in filigrana, che Dino Maccini ottiene risultati espressivi davvero unici ed eccellenti. Opere come La mia estate, Verdi trame e Una strana storia stupiscono e rapiscono per la particolarità dei ritratti e per l’ineffabile luce che li attraversa e li vivifica, o ancora per lo stingersi dei segni, delle forme, quale metafora dello stingersi della memoria.
La mia estate (2008), chi lo direbbe mai? è l’autoritratto di Dino, l’unica sua immagine che, a dispetto del tempo, non varierà, se non per eventuali incidenti di percorso che possano lasciare traccia indelebile, ma perciò stesso ancora inconfutabilmente riconoscibile. Se corpo e viso di tutti sono assoggettati alle regole del tempo, ad un variare continuo, per taluni più inavvertibile e prolungato, per altri più accelerato e visibile con immediatezza e talora stupore, l’impronta digitale rappresenta la traccia per così dire stabile della nostra identità. Ecco perciò spiegato perché l’impronta digitale di Dino Maccini diviene immediatamente autoritratto e non un qualsiasi autoritratto, come se ne vedono realizzati da altri artisti nella foga di inseguire i cambiamenti della loro immagine nel tempo, ma il vero e unico autoritratto possibile “per sempre”: quello che rappresenta il nucleo stabile, profondo dell’uomo e dell’artista, il nucleo che non è soggetto a mutazioni, che invece interessano le parti più superficiali del corpo e più visibili. Paradossalmente anche l’impronta digitale si situa in superficie, sulla pelle, al confine col mondo esterno, ma questa è condizione necessaria perché forma sia data, altrimenti la rappresentazione sarebbe possibile solo ricorrendo all’immaginazione, perdendosi dunque ancora una volta nel non scientifico, nel non oggettivo. La luce gioca ne La mia estate un ruolo di assoluta importanza. Ecco perché il ricorso al termine filigrana, perché senza il sole estivo, metafora di un momento radioso nella vita dell’artista, non sarebbe dato di leggere con evidente chiarezza le “trame di un canto” dell’anima individuale. Trame, tra l’altro, almeno per un non esperto scientifico di impronte, che rivelano una vorticosa e risucchiante attrattività spiraliforme a matrice ovale, che sembra rimarcare, nell’essenza raggiunta e disegnata a partire dall’impronta digitale, l’esito del coraggioso viaggio alla ricerca del sé, iniziato varcando le due porte/soglie de L’assenza e de L’origine. Insomma ora Dino Maccini può rappresentarsi, una volta per tutte, in quella parte della sua fisicità di essere incarnato che è specchio della sua anima.
Ma la luce, se ne La mia estate è puro mezzo per attivare la lettura in filigrana della sua anima, diviene invece pura espressione di gioia vitale in Verdi Trame (2008). Dino parte dal rinvenimento di un asse per bucato uscita dalle spire del tempo, e, accostandola nella sua integrità di reperto, struttura una superficie assonante, che riveste con tessere di un giallo acido le quali, trascolorando a partire da una velata ombra ai margini, si rende vieppiù luminosa fino ad esplodere, letteralmente, al centro della composizione, in un raggio quasi accecante, degno di rappresentare la potenza della luce, la sua spesso insostenibilità per i nostri occhi, ed è una luce che proviene dal fondo, perciò ancora più sorprendente, dal momento che sappiamo, per vederlo dichiarato a lato, che proviene/attraversa l’opaco legno.
Sublime infine il senso profondamente umano di Una strana storia (2008). Da un fondo a mosaico sabbioso nella percezione cromatica, si distacca, mediante lievi sollevamenti, un foglio strappato a metà in senso orizzontale. E’ una storia strappata, conclusa, è evidente. Sul foglio erano state trascritte due anime, rappresentate ancora dalle impronte digitali dei corpi che loro corrispondono, vicine, equilibrate, con pari spazio di pertinenza e condiviso. Quella femminile presenta una cicatrice che la rende ancora più unica. Ma il foglio è strappato, la strana storia finita. Eppure, come sempre succede, restano degli strascichi: è impensabile, umanamente, strappare il foglio verticalmente: a ciascuno il proprio dominio, il proprio spazio; l’altro cancellato, totalmente dimenticato. Sarebbe bello … forse; facile … se possibile; ma la vita funziona altrimenti e dunque lo strappo che separa la coppia - annota con indicibile sensibilità Dino - separa, scinde anche ciascuno dei due: si rimane spezzati, deprivati di una parte di sé, che, simbolicamente, resta appannaggio dell’altro e soggetto a lento disgregarsi nella forma, man mano che si disgrega nella memoria, che scolora, che si annebbia, fino a divenire vuoto e assenza.
Il tema dei fogli e delle loro compenetrazioni diviene, dopo Una strana storia, campo per una nuova intrigante indagine. Si affaccia in questo percorso anche il tema della trasparenza luminosa, che consente, attraverso un sensore di passaggio, di alimentare elettricamente una lampadina a led retrostante che “accende” la scrittura sui fogli.
Opere più intense di questo scandaglio sono certamente Pagine e Unione simbiotica.
La prima sembra la traduzione, dal linguaggio musicale a quello musivo, di una nota e bellissima canzone di Ornella Vanoni, Pagine, che peraltro Dino non conosceva: “ecco, il fruscio di questo foglio / il suo piegarsi al mio volere / il suo lasciarsi come sempre / come sempre abbandonare / ecco, il suo stare insieme ad altri / il toccarsi con le frasi, il mischiarsi con gli accenti, mescolarsi / e per questo siamo pagine, scritte bene scritte male / siamo storia e sentimento / ecco, c’è uno spostamento d’aria / siamo il segno che rimane / anche per questo ricordarci, ricordare / quelle pagine strappate / quelle vite cancellate, senza più parole / senza più parole, e per questo siamo pagine / siamo storia e geografia / storia in una fotografia …”. Immediato ritrovare fra queste parole la descrizione musicale di Una strana storia, “siamo il segno che rimane / anche per questo ricordarci, ricordare / quelle pagine strappate / quelle vite cancellate, senza più parole / senza più parole”, ma anche dell’intero ciclo dei fogli compenetrati. Pagine (2009), infatti, che porta lo stesso titolo della canzone dal giorno in cui Dino l’ha ascoltata, rivela il “mescolarsi” di tre fogli, riconoscibili dal diverso tono di grigio che connota il fondo, il quale rende riconoscibili le intersezioni di ciascuno, “il suo stare insieme ad altri”, intersezioni che non riguardano più solo le superfici, come in altre opere, ma anche la scrittura, “il toccarsi con le frasi, il mischiarsi con gli accenti” dunque. Nella scrittura, puro segno illeggibile, al generale colore nero dei caratteri, si sostituiscono, nelle ultime righe, caratteri rossi: thanatos ed eros, morte e amore, più morte che amore, in una proporzione purtroppo veritiera, come rivelano le parole “e per questo siamo pagine, scritte bene scritte male / siamo storia e sentimento”, un sentimento che solo nella compenetrazione, nella relazione intima consente alla scrittura di trapassare da un foglio all’altro, come mostra l’opera di Dino nello sconfinamento, senza “affinità elettive”, fra i due fogli in primo piano, laddove il bianco cede la scrittura rossa al grigio medio che la restituisce nera.
Ma non sempre l’amore non riesce ad attraversare i fogli come in Pagine: in Unione simbiotica (2010) una scrittura più caotica e meno organizzata e strutturata della simulata scrittura verbale, una scrittura segnica, composta di schizzi, o disegni, o schemi grafici è attraversata da un flusso di segni rossi che si trasmette dall’uno all’altro dei fogli, dando corpo alla danza della vita, una danza particolarmente percepibile nel flessuoso intersecarsi dei fogli, i quali, strutturandosi per la prima volta in chiave realmente spaziale, divengono scultura, permeando, grazie a “il suo stare insieme ad altri” di ciascuno dei fogli, lo spazio circostante, al quale trasmette un messaggio positivo ed energeticamente rilevante, che, nel suo pathos, sembra riportare alla gestualità nervosa e dinamicissima dei segni centrifugati di Emilio Vedova.
Ma, ancora in tema di fogli ed esplorando fra le opere di chiaro carattere religioso, ci si può imbattere in Se ci sei… (2007): il semplice panneggio di un foglio bianco di bianche tessere dà vita ad un Cristo astratto e reso pura essenza della forma: una piega dorata la testa reclinata in avanti; i tre tesissimi panneggi le braccia e le gambe inchiodate alla croce, cui donano memoria vivida i chiodi da cui stillano, come dal costato, gocce di rosso sangue. Rosso in campo bianco però, per veicolare un messaggio ben diverso: l’amore che giunge fino al sacrificio della vita terrena consente la conquista della luce eterna, secondo il messaggio Cristiano-Cattolico, luce alla quale il Cristo stesso si ricongiunge nell’attimo del trapasso.
Come molti artisti, nei quali difficilmente si spegne la vitalità del bambino interiore, Maccini dedica alcune opere al gioco: Il sottile gioco delle parti, Io non gioco più, ma anche Cielo, opera realizzata in collaborazione con William Xerra per segnare la sede, in Via Campagna 83, del Centro Psicopedagogico per la Pace.
Se il grande pannello de Il sottile gioco delle parti (2007), a una prima superficiale analisi, sembra semplicemente tramandare la memoria del gioco detto “tris”, nel quale ogni giocatore, sfruttando la distrazione dell’avversario, tenta di infilare un tris allineato in riga, colonna o diagonale del proprio segno di riconoscimento, vincendo con ciò la rapidissima partita; ad un’analisi più attenta ci si accorge che i cerchietti sono distinti l’uno mediante una freccetta verso alto/dx, l’altro da una crocetta verso il basso/centro: insomma non si tratta di una partita qualsiasi, ma ancora una volta di un confronto maschile/femminile. Nasce spontaneo, a questo punto, il desiderio di contabilizzare le vittorie, senza dimenticare le partite “a vuoto”, senza vincitori né vinti: stallo? distanza? indifferenza? semplice parità? l’interpretazione è aperta. Risultati su un totale di 31 partite dunque: 7 maschile, 9 femminile, 15 parità (compresa un’erronea attribuzione al maschile di una partita non vinta). Fa sorridere di sé che un gioco, semplicemente rappresentato in un’opera artistica, induca a giocare, attivando la curiosità di conteggiare e interpretare i risultati: sostanziale equilibrio, dunque, con lieve preminenza femminile: un ritratto delle relazioni più vicino, evidentemente, al desiderio dell’artista che alla realtà.
Il gioco si conferma gioioso, nonostante il titolo, in Io non gioco più (2009), nel quale, al mutare dei segni di riconoscimento, muta anche l’interpretazione del gioco: cuori “contro” croci, alias amore vs morte, eros/thanatos: risultati 3 a 2 per amore, che, stende anche, amorosamente, su una vittoria della morte la sua passionale riga rossa che pure decreta la vittoria della temibile avversaria.
Sempre al tema del gioco va ascritta l’opera Cielo (2009), che tutti da bambini abbiamo giocato almeno una volta: l’opera fissa dunque i “contorni” di un piacevole passatempo per il quale occorrevano doti da “lanciatore/trice di un sassetto” e di “oculato/a saltatore/trice”, capace di non invadere le linee del tracciato. Cielo fissa indelebilmente il ricordo di uno dei momenti di maggiore totalità di presenza del periodo infantile.
In tema di collaborazioni, non certo evitate da Dino Maccini, ma anzi perseguite con piacere, per un confronto, per una biunivoca sollecitazione, per una sinergia creativa capace di generare opere particolarmente risonanti, data la moltiplicazione e la diversità delle energie creative a confronto, si possono rammemorare: il laboratorio di espressione artistica, guidato con Alberto Gallerati, per gli anziani della Casa protetta “Vittorio Emanuele II” di Piacenza; le esperienze di integrazione musiva di alcune sculture di Giorgio Groppi, definite “a quattro mani”, come si evince con immediatezza osservando, in particolare, il tema degli abbracci, tipicamente macciniano; alle più recenti opere realizzate con Franca Franchi, nelle quali si confrontano due sensibilità e due modi di intendere, in chiave contemporanea, il mosaico: un esempio lo fornisce Scie (2010).
Alla collaborazione con Giorgio Groppi invece data La danza del fuoco (2009), che illustrerà la copertina del libro, di ormai prossima edizione, di Igino Maj: il libro di interviste intitolato Parlo con i Nobel.
Ultima breve nota: nella sua ricerca tecnica nel campo del mosaico, Dino Maccini ha anche esplorato la possibilità di rendere flessibile il mosaico e gli è riuscito con Arazzo (2007): un piano che può aderire alla forma sulla quale lo si stende, come un vero arazzo.
Sergio Signorini